L'angolo dello scrittore

La verità, vi prego, sulla morte di Pasolini_1^parte

Pino Pelosi, unico condannato per l’assassinio del poeta delle “Ceneri di Gramsci”, racconta in un libro la sua versione a 36 anni dal fatto. Spiega che a uccidere trucemente Pier Paolo furono altre persone, ma non chiarisce nulla, né sui motivi dell’omicidio, né sulle sue eventuali complicità con i killer. Il suo pluridecennale silenzio causato dalle ‘minacce’ ricevute, le tante menzogne sostenute, le persistenti contraddizioni, incoerenze e omertà delle attuali ‘rivelazioni’ suscitano troppi dubbi sulla sua attendibilità e buona fede. Su una cosa, però, ha ragione: sulla brutale fine dello scrittore si continuerà a parlare e a ricercare ancora a lungo.

 

di Domenico Donatone_

 

«Ora spero che con questo mio scritto io contribuisca

ad affermare chi sono veramente i cosiddetti angeli neri,

anche se su questa storia penso che il sipario

non calerà mai definitivamente.»

(P. Pelosi, da Io so… come hanno ucciso Pasolini, Vertigo ed., 2011)

Verrebbe spontaneo, alla luce delle vicende mediatiche e giudiziarie che hanno riguardato nuovi riscontri sulla morte dello scrittore Pier Paolo Pasolini, cambiare il titolo del libro del poeta inglese W. H. Auden, La verità, vi prego, sull’amore in La verità, vi prego, sulla morte di Pasolini. Questo perché un Paese costretto a non conoscere la verità ma ad apprenderla attraverso lacerti e bocconi, ha bisogno, o avrebbe con molta urgenza (e l’urgenza è una necessità democratica), di liberarsi della «macchina del fango» e dell’omertà che fluttua, quasi sempre presente, nei fatti di cronaca politico-giudiziaria. Ma saremmo altrettanto degli ingenui a ritenere che questo è possibile senza ammettere che ciò che deve riguardare il cambiamento non richiede un lavoro talmente impegnativo, logorante, dal basso quanto dall’alto della società, che è più facile rassegnarsi che perseverare, più facile demordere che persistere. Alcune cose si preservano nel tempo, si salvaguardano, solo se si mantiene ferma una posizione culturale, di principi, quasi assoluta (e se si ha la capacità e l’onestà nel farlo). Si combatte anche sapendo che si è soli! Questo fece Pasolini (e forse in virtù della sua sineciosi non desiderava essere emarginato e offeso, ma criticò ugualmente il suo tempo storico), soprattutto negli anni Settanta fino alla sua morte, avvenuta nella notte tra l’1 e il 2 Novembre del 1975.

Se il fuoco della grande passione civile che fu di Pasolini può trovare riscontro ancora adesso, questo è utile, per non dire indispensabile, ma altrettanto si potrebbe rimanere increduli e disorientati se questo stesso fuoco che alimenta la coscienza di chi, ritenuto e resosi responsabile di atti delinquenziali, fosse all’improvviso il solo metro di giudizio di un delitto che è avvolto dal mistero. Parliamo di Pino Pelosi, tornato alle cronache nel 2005 per aver fatto nuove dichiarazioni sul delitto Pasolini. Chi è Pino Pelosi è noto a tutti; quello che egli ha dichiarato nel corso degli anni, dal giorno del suo arresto fino a quello della sua condanna definitiva (nove anni, sette mesi e dieci giorni) per aver assassinato Pier Paolo Pasolini, è meno noto, avendo egli agito in concorso con persone sconosciute. Riscontro, quest’ultimo, totalmente decaduto nelle fasi di riesame del processo, per cui Pelosi, per la cronaca e per la storia, è colui che ha assassinato Pasolini la notte di trentasei anni fa. A questa versione giudiziaria, ottenuta, come si è scritto, con «molta fretta», con un avallo semplicistico da parte della magistratura, pochi hanno creduto e nessuno, che abbia capacità di discernimento, può credere che Pelosi, da solo, abbia potuto aggredire e uccidere Pasolini riducendolo in quello stato. Un corpo martoriato, lesionato, colpito con violenza alla testa e nelle parti intime con molta precisione, sormontato, in fine, da un’auto, per gli inquirenti guidata da Pelosi stesso. Pensare a un delitto generato da una lite tra omosessuali fa comodo a molti, ai quei “colletti bianchi” a cui Pelosi si riferisce. Pensare ad un delitto compiuto per mettere a tacere un intellettuale scomodo, autore del romanzo delle stragi, cambia drasticamente il quadro di interesse.

Quello di Pasolini è un delitto ancora irrisolto. Come irrisolto è il delitto di Ruggero Pascoli, padre di Giovanni, avvenuto il 10 Agosto del 1867, anch’esso compiuto per mano di ignoti. Il delitto Pasolini è un delitto politico. Pino Pelosi non lo dice chiaramente, ma apre uno spazio di maggior riflessione dal momento che gran parte della ricostruzione su quanto accaduto si scontra con aspetti del processo che fanno pensare ad un coinvolgimento delle alte sfere del Potere. Così dicendo, egli si allinea a quella verità che è propria di una meccanica di intuizione cara a Pasolini e che scatta quando si dichiara «Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concerto la tensione anticomunista) e infine a criminali comuni, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).[i]» Così la nuova vita di Pino Pelosi, o più semplicemente quella che egli desidera rifarsi, si palesa con l’imperativo morale dell’Io so.

Io so… come hanno ucciso Pasolini, è, infatti, il titolo del libro-diario, edito da Vertigo, 2011 (€ 15,00; pp. 123) che Pino Pelosi ha scritto come atto finale, forse risolutivo (?), della vicenda Pasolini. Un libro che subito genera dibattito, riapre dilemmi, focalizza la ricostruzione non solo sulla notte dell’aggressione e dell’omicidio, ma anche sulle giornate precedenti in cui alcuni amici di borgata di Pelosi (che frequentavano la sezione del MSI del Tiburtino) organizzano un’estorsione ai danni dello scrittore. Il libro pone attenzione anche sul processo subìto, sul metodo di investigazione e di difesa (assai blando, discutibile), fino alla scoperta di essere diventato un capro espiatorio[ii] e, quindi, persona innocente dei fatti.

Va detto subito che il testo di Pelosi, rapido e corrente nella scrittura, determina coinvolgimento quanto dubbio: dubbio sulla capacità di Pelosi-testimone di condurre a distanza di così tanti anni un’operazione di verità obiettiva, senza che la mente vacilli. Questo libro, infatti, nonostante il suo scopo nobile, nel tentativo di svelare il mistero che avvolge il delitto Pasolini, getta altro mistero sullo stesso. Perché? Perché Pelosi non sa dire, perché egli non sa davvero oppure non vuole dire, chi furono i soggetti che hanno agito nel buio e i referenti della malavita romana (?) che hanno fatto da cornice affinché il delitto fosse insabbiato con dovizia nelle sue prove più imbarazzanti, ad iniziare dall’auto dello scrittore visibilmente danneggiata e sporca di fango. L’auto (un’Alfa Gt 2000) viene lasciata fuori, all’aperto, nel cortile della caserma dei Carabinieri nei giorni successivi il sequestro, soggetta alla pioggia e alle intemperie che hanno cancellato tracce, impronte sulla carrozzeria, fino alla sua demolizione eseguita da Ninetto Davoli nel 1981. Demolizione effettuata attraverso un dissequestro rapido, ma qualcuno ancora cerca l’Alfa del poeta nei vari depositi giudiziari della Capitale, senza trovarla. Il motivo che spinge il lettore a non avere un quadro risolutivo è un altro e sta nel fatto che Pino Pelosi si rende un testimone che proroga ciò che ricorda, egli decide di parlare con cadenza frammentaria, a tratti, a scansione, quando più ricorda elementi di quella tragica notte all’Idroscalo di Ostia. Lo fa perché davvero non ricorda bene un evento accaduto ormai trentasei anni fa, oppure perché non sa tutto o non vuole ancora dire tutto? Ipotesi plausibili. D’altronde non avremmo motivo di non credere a Pino Pelosi, ad una persona che si è fatta il carcere pagando, come egli sostiene, per tutti, e che dal carcere continua a entrare e uscire perché la sua vita è stata rovinata da quanto accaduto quella notte. Oppure, proprio per questo fattore di inconcludenza, diffuso e aleatorio, che genera una spontanea diffidenza non sempre giustificabile, non abbiamo un motivo valido per credere a tutto quello che dice Pelosi, perché troppi sono i silenzi squarciati da improvvise rivelazioni, da importanti ravvedimenti segnati da dichiarazioni che non combaciano.